Cassazione: non c’è dolo se il fine è la cura

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Non si può ipotizzare il reato di lesioni volontarie gravi o gravissime ex articolo 583, comma 2, del Codice penale se l’intervento del medico, anche se avvenuto senza consenso e con esito infausto, ha avuto comunque una finalità terapeutica e può essere inquadrato tra gli atti medici. A ricordare il principio di diritto già espresso in sede penale è stata stavolta la terza sezione civile della Cassazione. (Consulta Il testo della sentenza)

Con la sentenza n. 15239/2014, depositata il 3 luglio, la Suprema Corte ha sottolineato come la condotta del sanitario non possa essere ritenuta diretta a ledere se l’operazione aveva un fine terapeutico. Se dunque il medico ha causato lesioni al paziente, è al più ipotizzabile il delitto di lesioni colpose, sempre che il danno sia riconducibile alla violazione di una regola cautelare.

La pronuncia della Cassazione ha preso le mosse da una particolare vicenda giudiziaria. I fatti: nel 2004 un giovane convenne in giudizio un medico e un policlinico lombardo affinché fossero condannati al risarcimento dei danni conseguenti a un intervento chirurgico alla testa effettuato il 4 febbraio 1985, quando il ricorrente aveva poco più di un anno. A seguito dell’intervento il bambino era rimasto completamente cieco. Secondo il paziente, ciò era avvenuto perché il sanitario aveva eseguito un intervento chirurgico diverso da quello concordato, non necessario e assai più pericoloso di quello condiviso con il pediatra che lo aveva in cura.

Le corti di merito respinsero la domanda accogliendo la preliminare eccezione di prescrizione, essendo decorsa la prescrizione decennale. Per poter ritenere esistente ancora un margine di azione, l’unico mezzo era quello di configurare l’ipotesi del delitto di lesioni volontarie gravissime, soggetto all’epoca alla prescrizione di 15 anni, estensibile anche a fini civili in base alla previsione dell’art. 2947 Cc. La tesi centrale del ricorrente poggiava sul fatto che l’intervento era avvenuto senza consenso (di qui l’ipotesi di lesioni volontarie gravissime).
Secondo la Corte, però, il fatto che non fosse stato espresso un consenso non determina, per conseguenza diretta, l’esistenza di un espresso dissenso. E la disapprovazione andava comunque dimostrata, non bastando l’astratta configurabilità di una sorta di “animus nocendi” da parte del medico.

In altri termini, richiamando la terminologia usata nella sentenza n. 34521/2010 della Cassazione penale, poiché nessuno ha mai contestato che nell’operato del sanitario fosse comunque ravvisabile una «finalità terapeutica» l’atto chirurgico compiuto era di sicuro «inquadrabile nella categoria degli atti medici». Non essendo in discussione, quindi, la configurabilità di una condotta intenzionalmente diretta a ledere, l’unica ipotesi di reato che si potrebbe profilare è soltanto quella delle lesioni colpose; fattispecie rispetto alla quale il termine prescrizionale è quello usuale di dieci anni. (Fonte: Il Sole24Ore Sanità)